Recensione: “La vegetariana” di Han Kang

«Anch’io faccio dei sogni, sai? Dei sogni… in cui potrei dissolvermi, lasciare che abbiano il sopravvento su di me… Ma non esiste soltanto il sogno, no? Dobbiamo svegliarci a un certo punto, non è così? Perché… Perché allora…» (p.177)

Con queste parole di In-hye, rivolte alla sorella Yeong-hye, che rifiuta il cibo con la speranza di trasformarsi in un vegetale, il romanzo “La vegetariana” sta per volgere al temine. Sono parole che invocano una sorta di senso di responsabilità verso la vita; sono parole della razionalità, quell’elemento essenziale dell’essere umano al quale tutti noi ci aggrappiamo per non perdere le redini della nostra esistenza, soprattutto nei momenti di burrasca, durante i quali lasciarsi andare alla nostra parte irrazionale sembrerebbe la cosa più semplice. “[L]asciare che (i sogni) abbiano il sopravvento” è una dolce tentazione, resa tale grazie a quel senso consolatorio che il lasciarci andare sembra poter offrire. La razionalità è ciò che ci impedisce di cadere quando gli eventi dell’esistenza ci obbligano a guardare nel nostro abisso personale, è quell’istinto di sopravvivenza che ci mantiene sulla retta via. Eppure siamo affascinati dall’abisso, il pensiero di uscire dai binari ci attraversa la mente e si espande nel nostro corpo come un brivido pieno di eccitazione ed adrenalina. È come la vertigine, quella sensazione che Milan Kundera descrive come “la voce del vuoto sotto di noi che ci attira, che ci alletta, è il desiderio di cadere, dal quale ci difendiamo con la paura”: allo stesso modo l’abisso ci chiama, una chiamata dalla quale il meccanismo dello spavento ci difende, riportandoci alla ragione. Ma non tutti sono capaci di ciò, o non tutti vogliono difendersi in maniera razionale. In-hye guarda la sorella e, nonostante la sofferenza per lo stato moribondo in cui questa versa, non può fare a meno di provare una sorta di gelosia per la sua estrema libertà, quella libertà con cui, fino alla fine del romanzo, combatte per essere ciò che vuole essere, nonostante questo comporti la sua autodistruzione. “La vegetariana” è un romanzo pieno di amarezza, quella sensazione che deriva dall’interrogarsi sull’essenza del nostro essere, su ciò che vuol dire essere umano, e nel percepire tutta quella sofferenza e violenza che sembrano imprescindibili dalla condizione umana.

Ma torniamo al principio. “La vegetariana” racconta la storia di una metamorfosi dove, a differenza del kafkiano Gregor Samsa, la protagonista di questa vicenda, Yeong-hye, intenzionalmente prende la decisione di diventare una pianta. Il romanzo si sviluppa in tre sezioni, ognuna delle quali raccontata attraverso il punto di vista di un personaggio secondario. La prima, intitolata “La vegetariana”, è narrata attraverso la voce cinica del marito di Yeong-hye, il signor Cheong. La seconda parte, “La macchia mongolica”, è raccontata dal punto di vista del cognato di Yeong-hye, un anonimo artista. Attraverso gli occhi di In-hye, sorella di Yeong-hye, ci viene esposta l’ultima parte, “Fiamme verdi”. Ne consegue che la protagonista è quasi esclusivamente descritta attraverso il punto di vista altrui, con l’eccezione di sporadici momenti costituiti da rappresentazioni oniriche e frammenti di memorie, indizi che l’autrice lascia per permetterci di accedere nel profondo della psiche della protagonista.

«Ho fatto un sogno.» (p. 19)

Freud identifica il ruolo dei sogni nella loro capacità di far riemergere il represso. Il sogno descritto da Yeon-hye è profondamente truce e grottesco, colmo di sangue e morte. Yeon-hye stessa trova una interpretazione a tale sogno: è il senso di colpa per tutte quelle vite stroncate con le quali si è nutrita. La morte e le sofferenze inflitte ad altri esseri viventi perché questi possano diventare nutrimento per il corpo umano è ciò che traspare dal suo incubo. Secondo Choi Ji-won (2020), psicoterapeuta presso il centro di ascolto studenti della Seoul University, Han Kang fornisce esattamente l’evento traumatico, avvenuto nell’infanzia di Yeong-hye, che porterà la sua versione adulta al rifiuto del consumo alimentare della carne: si tratta dell’uccisione del cane di famiglia. La scena è riportata in un frammento di memorie della protagonista: attraverso le sue stesse parole siamo spettatori dell’esecuzione brutale dell’animale che aveva morso la bambina. Il padre di quest’ultima lega la povera bestia alla sua moto e la costringe a correre fino allo sfinimento: è questo il metodo migliore per ottenere una carne morbida, afferma l’uomo. In Corea la carne canina era tradizionalmente utilizzata in cucina ed ancor oggi esistono ristoranti che la servono, seppur sia sempre meno richiesta. “Secondo il proverbio, affinché una ferita causata dal morso di un cane guarisca devi mangiare la carne di quel cane” (p. 48), e così Yeong-hye ne mangia una intera scodella, mentre gli occhi dell’animale che la fissano in punto di morte si imprimono nella sua mente. L’enorme violenza che si manifesta in questo ricordo è intrinsecamente legata all’aggressività del padre abusivo. Il romanzo è costellato da riferimenti sulla ferocia dell’uomo, un veterano di guerra, la cui principale vittima era proprio la secondogenita Yeong-hye. La violenza e la sofferenza che subisce durante l’infanzia, così, si riflettono nella violenza e sofferenza che il consumo di carne comporta. I sogni, però, hanno inizio in età più tarda, attivati da un altro elemento traumatico, come evidenzia ancora Choi Ji-won, cioè degli scatti di ira del marito nei suoi confronti. Una volta andati a vivere da soli, cosa accaduta solo l’autunno precedente, i due sposi si erano promessi di concepire un bambino. La coppia si trova quindi in un periodo cruciale della loro convivenza, probabilmente Yeong-hye sente su di sé le aspettative sociali e del marito che vogliono che diventi madre, ed è proprio in questo contesto che l’ira del marito fa scatenare i sogni che riportano a galla l’orrore delle violenze subite nell’infanzia. Da ciò scaturisce il totale rifiuto della protagonista verso la violenza. Un rifiuto che si esplica nelle sue nuove abitudini alimentari e che l’ottusa visione del marito, totalmente priva di empatia verso la sua compagna, non riuscirà mai a comprendere. Anche al vegetarianismo egli prova a dare spiegazioni che risultano sempre caratterizzate da un forte pragmatismo: “[a] mio parere, gli unici motivi ragionevoli per cambiare le proprie abitudini alimentari erano il desiderio di perdere peso, il tentativo di alleviare alcuni disturbi, il fatto di essere posseduti da uno spirito maligno o di avere problemi di sonno dovuti a una cattiva digestione” (p. 23). Il rigetto della violenza e del dolore, vero motivo per cui sua moglie si rifiuta di consumare carne, gli resterà ignoto per un suo totale disinteresse verso la sfera emozionale di lei, ed eventualmente la abbandonerà incapace di sopportare tanto fastidio.

«Posso fidarmi solo del mio seno, adesso. Mi piace il mio seno, non può uccidere niente. La mano, il piede, la lingua, lo sguardo: tutte armi da cui nulla è al sicuro. Ma non il mio seno. Con i miei seni rotondi sono tranquilla.» (p. 40)

Yeong-hye, insofferente al reggiseno che le arreca una sensazione di costrizione ed oppressione, preferisce non utilizzarlo, innescando l’indignazione e lo sconcerto di chi le è intorno. L’indignazione pubblica per il mancato uso di tale indumento intimo stride con l’accettazione di una violenza che è socialmente ammessa e diffusa. Mentre i seni innocui di Yeong-hye sono giudicati immorali, l’uccisione di esseri viventi e senzienti, per il consumo della loro carne, è percepita come una pratica civile. Nel rifiutare l’uso del reggiseno e, successivamente, nell’eliminare il consumo della carne, la protagonista si rivela una identità estremamente anticonformista, che si oppone ad un senso comune del quale rivela le intrinseche contraddizioni. Ma nessuno di coloro che la circondano è capace di accettare le sue scelte, a partire dal marito e poi i suoi familiari, che ancora una volta esercitano violenza su di lei negli svariati tentativi con cui vogliono costringerla a mangiare carne. Prima il padre, che in una scena grottesca cerca di infilarle del maiale in gola; poi la madre, che con l’inganno le fa ingurgitare un preparato rinvigorente a base di carne di capra. Vittima di questa aggressiva forza coercitiva, lo stato mentale di Yeong-hye inizia a degenerare fino alla decisione di diventare una pianta e cibarsi esclusivamente di luce solare. Non identificandosi più nell’aggressività della razza umana, vuole sublimare in una entità incapace di procurare dolore. Come accade anche a Gregor Samsa, la presunta malattia, ai quali i medicini non riescono a dare una ben definita interpretazione, spaventa i familiari della donna, che viene così abbandonata. Sfruttata dal cognato, che per soddisfare le proprie fantasie sessuali ed artistiche fomenterà la fantasia vegetale di lei, Yeong-hye finirà poi in un ospedale psichiatrico dove soltanto la sorella maggiore, In-hye, rimarrà al suo fianco. In-hye è il personaggio più clemente nei confronti della protagonista, con la quale sente di condividere un dolore esistenziale; una sofferenza che subdola, ipotizza, abbia gradualmente portato Yeong-hye nello stato in cui si trova, e che un giorno potrebbe portarvici anche lei. Mossa dalla paura di perdere sua sorella, In-hye cerca di convincerla a smettere il digiuno e a tornare ad una dieta vegana, ma le sue parole risultano vane. Per essere sottratta alla morte, Yeong-hye torna ad essere oggetto di violenza: la scena in cui le viene inserito un sondino per la nutrizione enterale è tra le più cruente del romanzo. La disperazione di Yeong-hye con cui si oppone ai medici, il rigetto da parte del suo stesso corpo verso l’oggetto estraneo ed il cibo che lo stomaco è così costretto a ricevere, riempiono gli occhi di In-hye, e del lettore, di orrore.

«Credo che gli esseri umani dovrebbero essere piante.» (Yi Sang)

“La vegetariana” è un romanzo di un fascino enorme ed in grado di porci grandi interrogativi. Mentre In-hye prega i medici perché lascino in pace la sorella che vomita sangue a causa del sondino, noi lettori ci chiediamo fino a che punto è giusto spingerci per il bene di qualcuno? Fino a che punto è lecito andare contro la volontà di un essere umano, esercitando in questo modo violenza su di esso, in nome di questo presunto bene? Il rifiuto da parte di Yeong-hye della violenza che si esplica nell’astensione dal consumo di carne animale e, successivamente, nel rigettare la sua appartenenza all’umanità stessa, ci portano a chiederci se è possibile essere “esseri umani” senza apportare dolore ai nostri simili ed al mondo in cui viviamo, o se la perdita dell’innocenza sia imprescindibile alla condizione umana? Forse, come affermava Yi Sang, uno dei poeti più amati dai coreani e che ben conosceva la natura violenta degli esseri umani, essendo vissuto durante l’occupazione giapponese della sua patria, gli esseri umani dovrebbero essere piante. Come piante, dovremmo imparare a vivere in armonia con i nostri simili ed il pianeta che ci ospita. La frase di Yi Sang soprariportata è stata una delle fonti di ispirazione di Han Kang, ma se guardiamo alla letteratura ed alla produzione artistica coreana nel suo complesso, in particolare la poesia, è immediato notare quanto importante sia qui la presenza della natura. Si tratta di una natura salvifica e creativa, fonte incessante di ispirazione per l’artista. In “Il poeta”, di Yi Munyŏl, la natura è descritta come l’ultimo rifugio dalla corruzione della società umana. Il poeta raggiunge la massima somma della sua arte nel momento in cui riesce ad esprimere nella sua poesia la “bellezza, verità e sacralità” della natura ed immerge la sua stessa esistenza nel mondo naturale.

«Il poeta cammina leggero, per un sentiero perduto, in un luogo dimenticato dagli uomini. Cammina scrollandosi di dosso la polvere dei conflitti del mondo, come una nuvola, come il vento, come un fiore selvatico.» (Yi Munyŏl)

La natura, madre munifica, si offre all’uomo come fonte di conforto e rifugio sicuro. Abbandonare la violenza e tornare alla natura con un atteggiamento nuovo, colmo di rispetto e riconoscenza: è forse questa la via per l’evoluzione dell’umanità?

FONTI:

Choi, Ji-won 2020, “한강의 ‘채식주의자’ 부부 관계 분석: 대상관계이론을 중심으로.” 한국콘텐츠학회논문지 Vol. 20 No. 12.

Han Kang (trad. di Milena Zemira Ciccimarra) 2017. La vegetariana. Adelphi Edizioni: Milano.

Jurecic, Ann & Marchalik, Daniel (Jan 14) 2017. “From Literature to Medicine. Mental illness in Han Kang’s The Vegetarian.The Lancet Vol 389.

Kundera, Milan (Trad. di Giuseppe Dierna) 1985. L’insostenibile leggerezza dell’essere. Adelphi Edizioni: Milano.

Lee, Chan-kyun & Lee, Eun-ji 2010. “한강 작품 속에 나타난 에코페미니즘 연구: ‘채식주의자’를 중심으로.” 인문과학 Vol. 46, pp. 43 – 67.

Patrick, Bethanne (Feb 12, 2016). “Han Kang on Violence, Beauty, and the (Im)possibility of Innocence.” Literary Hub: https://lithub.com/han-kang-on-violence-beauty-and-the-impossibility-of-innocence/ (data consultazione 27 aprile 2021).

Scuola Holden (Nov 25) 2016. “Intervista ad Han Kang, scrittrice del libro La Vegetariana.” https://www.youtube.com/watch?v=ukFIJ4c5YqA (data consultazione 27 aprile 2021).

Stobie, E. Caitlin (Autumn) 2017. “The Good Wife? Sibling Species in Han Kang’s The Vegetarian.” ISLE: Interdisciplinary Studies in Literature and Environment 24.4, pp. 787 – 802.

Yi, Munyŏl (trad. di Maurizio Riotto) 2012. Il poeta. Bompiani: Milano.

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