Anton Hur: il mestiere del traduttore

Se negli ultimi anni la letteratura sudcoreana sta godendo di una crescente popolarità nel panorama editoriale anglosassone, lo si deve soprattutto a intraprendenti traduttori che non si limitano alla traduzione di un testo dal coreano all’inglese, ma si fanno veri e propri promotori di autori e opere che altrimenti non raggiungerebbero il grande pubblico. È il caso del collettivo “Smoking Tigers” di cui fa parte il nostro ospite di oggi: Anton Hur.

Hur è nato a Stoccolma ed è cresciuto tra Hong Kong, l’Etiopia, la Thailandia e la Corea del Sud. Avendo frequentato scuole coreane e internazionali, parla correntemente fin da piccolo sia il coreano sia l’inglese. La sua capacità di abitare entrambe le lingue (e l’universo culturale che le accompagna) gli ha donato una spiccata sensibilità letteraria e, in un certo senso, ha segnato il suo destino professionale.

Hur ricerca e sceglie lui stesso le opere che vorrebbe tradurre e le propone a case editrici che pubblicano in inglese. Grazie a lui abbiamo la possibilità di leggere autori come Sang Young Park (“Love in the Big City” edito da Grove Atlantic e Tilted Axis) e Bora Chung (“Cursed Bunny” edito da Honford Star) che rappresentano due tra le voci più interessanti e innovative della letteratura sudcoreana contemporanea.

Quando ho letto la tua biografia, ho pensato “Che vita incredibile, quella che ho sempre sognato io.” La verità è che non so cosa abbia significato per te nascere in Svezia, crescere in un contesto internazionale e vivere ora in Corea.

Sai le biografie sono sempre un po’ idealizzate, lo devono essere almeno in parte. Non ho mai mentito spudoratamente, ma mentre le scrivo, cosa che devo fare abbastanza frequentemente, è piuttosto divertente perché le esperienze che ho vissuto durante la mia vita sembrano tutte cose pigre e decisamente non produttive. Non credo di essere più realizzato rispetto ad altre persone della mia età che esercitano la mia stessa professione. Jennifer Croft ha la mia stessa età e ha fatto molto di più rispetto a me! In tutta onestà, sono stato fortunato e sicuramente privilegiato ma non direi più realizzato. Quando ripenso a quando avevo venti anni, tutto quello che ricordo è che guardavo una marea di programmi in seconda serata in tv.

Non esiste un percorso convenzionale per diventare traduttore. Dal mio punto di vista ciò che hanno in comune tutti i traduttori è un’incredibile sensibilità verso le parole, le culture e nella capacità di creare ponti tra questi due mondi. Hai studiato psicologia e legge all’università, quando e come ti sei reso conto che saresti stato adatto per questo ruolo?    

Sono contento che tu abbia menzionato il fatto che non ci sia un percorso convenzionale e sottolineato l’importanza della sensibilità del traduttore, perché sono completamente d’accordo e quello che dico continuamente ai giovani traduttori è che c’è un limite nell’emulare le persone venute prima. Bisogna costruire la propria pratica e sviluppare la propria prassi. So che sembra difficile, ma è alquanto divertente e rappresenta un’incredibile avventura. Ho studiato legge e psicologia più per avidità intellettuale che per il desiderio di trasformare la formazione ricevuta in lavoro. Ancora non so come influenza la mia visione del mondo. Forse mi aiuta ad organizzare meglio i miei pensieri? Una volta mi è capitato di usare la mia “mentalità giuridica” per fermare uno sfratto erroneo. Ancora non sono sicuro di essere adatto a questo ruolo, penso e ripenso costantemente su come faccio le cose e cosa questo ruolo dovrebbe implicare. Credo che ognuno dovrebbe pensarci, indipendentemente dal lavoro.

Fino a qualche decennio fa traduttori facevano il loro lavoro aspettando tranquillamente che arrivassero libri da tradurre. Oggi il loro ruolo è molto più complesso e include anche alcuni compiti di scouting e marketing. Il più delle volte, sono i traduttori a trovare gli autori e a proporli alle case editrici. Essere parte attiva dell’intero processo implica responsabilità ma anche la possibilità di scegliere gli autori.

Sembra proprio così, anche se stiamo vedendo entrare sempre più agenti letterari e scout nello spazio della traduzione, cosa che comunque è molto utile sotto diversi punti di vista.

Ho letto come hai scovato il libro di Bora – in una bancarella durante un mercatino dei libri –, generalmente come scegli gli autori che vorresti tradurre?

Il più delle volte attraverso riviste specializzate in letteratura coreana, ad essere onesti. C’è anche una fantastica miniantologia trimestrale pubblicata da Moonji Books e un’antologia poetica annuale.

Bora è stato un caso, non viene dato molto spazio alla fiction in questi spazi letterari, che è il motivo per cui sono dovuto andare alla ricerca di un autore SFF (science-fiction-fantasy).

Sei molto attivo sui social media, uno strumento utile con cui puoi far sentire la tua voce di traduttore. In Italia i traduttori stanno ancora cercando di avere maggiore attenzione. Com’è la situazione in Corea?  

Più o meno la stessa, ma non posso parlare a nome dei traduttori che traducono in coreano. Sono grato a Twitter per la possibilità di accedere a network e piattaforme che diventano luoghi virtuali per dibattiti e diffondere idee; è già di per sé difficile e isolante essere un traduttore in questo settore. I social media possono avere degli effetti terribili sulla psiche, effetti verificati e documentati, ma ci sono alcune piattaforme per traduttori e traduttori di colore.  

Quando lavori a una nuova traduzione, qual è la tua routine, se ne hai una?

Per ogni autore devo trovare il giusto metodo. È un processo intellettivo sicuramente, ma l’intuito gioca un ruolo fondamentale. Mentre sto lavorando mi ritrovo ad un certo punto a scoprire il momento esatto in cui capisco come fare e il numero di pagine giornaliere tradotte inizia ad aumentare solo quando entro realmente nel libro. È un po’ frustrante quando devo tradurre un autore nuovo per me e ho una deadline imminente da rispettare e non riesco ad andare veloce come vorrei. In quel caso cerco di rilassarmi e di ascoltare la mia voce interiore, per liberare il subconscio dallo stress. Una volta ritrovato uno stato mentale in equilibrio riesco a sentire cosa dice il mio cervello e comincio a buttare giù la traduzione. È lo stesso processo di quando scrivo.

Immagino che il tuo approccio cambi di volta in volta in base all’autore da tradurre, come definisci il rapporto che si instaura tra autore e traduttore?

Direi che è lo stesso rapporto che esiste tra un taglialegna e un carpentiere. Il taglialegna procura il legno mentre il carpentiere realizza il mobile. Non so come funziona realmente nel mondo della falegnameria ma immagino che il falegname non consulti troppo il taglialegna quando deve realizzare i mobili. Questo è il mio stesso approccio. Ho persino tradotto un autore con cui non ho mai parlato. Per gli autori con cui parlo invece, quando accade, difficilmente parliamo della traduzione. Magari parliamo della consegna e del lavoro di altre persone o semplicemente usciamo. Deborah Smith mi ha insegnato a chiamare il testo “origine” e non originale. Originale significa che la traduzione è un falso. Origine invece implica che la traduzione ha usato l’origine come materia prima per creare qualcosa di nuovo. Tutti gli autori che ho tradotto sono d’accordo con questa accezione e ne capiscono il processo.

Tradurre letteratura è un processo difficile, che cosa significa per te? Possiamo definirla una forma di arte?

Include un’ottima capacità di risolvere problemi, non solo quelli confinati nella traduzione in sé. I traduttori, infatti, sono coinvolti in quasi tutte le fasi del processo di creazione di un libro, ed è questo senso generalista nell’essere però specializzati che costituisce l’essenza dell’essere un traduttore letterario. Senza dubbio è arte. Per me un artista è qualcuno che ha sensibilità verso il mondo, verso i materiali che lo costituiscono e verso se stesso al punto di riuscire a percepire ciò che normalmente sfugge agli altri, è qualcuno che percepisce le cose e ha la capacità di portarle all’attenzione degli altri. Un traduttore deve avere un’incredibile sensibilità nella lettura del testo di origine, per capirlo a un livello profondo e normalmente non raggiungibile, almeno consapevolmente, al lettore casuale. In questo senso, essere un artista non è una categoria professionale, è uno stato mentale, una combinazione di istinto e capacità e apertura mentale. Chiunque in qualunque categoria professionale può essere un artista. Ovviamente la mia non è un’idea originale, ma penso si possa applicare molto bene ai traduttori. Dobbiamo essere sensibili, recettivi al linguaggio dentro di noi. 

Come lettrice cerco di acquistare libri nella loro edizione originale, ho sempre la sensazione che qualcosa nella traduzione possa essere perso o aggiunto. Per questo quando trovo un buon traduttore, lo seguo. Quali sono i traduttori di cui hai stima?

Sono l’opposto io, preferisco leggere libri tradotti. Mi piace quel filtro extra. Credo che se il testo d’origine è buono e il traduttore lo è altrettanto, l’arte presente nel testo verrà esaltata dalle piccole pecche del traduttore e da quelle dell’autore. Quando leggo traduzioni di Arunava Sinha o Soje o Jeremy Tiang, non penso a ciò che è stato aggiunto o eliminato, guardo la traduzione che ho di fronte e mi stupisco di come riesca a sentire le intenzioni e l’estetica dell’autore, di un lavoro che non ho o non posso leggere, attraverso una traduzione. Non mi interessa se aggiunge o toglie qualcosa. La traduzione non sarà mai come il testo d’origine, è un linguaggio completamente differente. C’è una frase in Possession di A.S. Byatt dove il personaggio realizza che i modi in cui qualcosa può essere detto sono molto più interessanti di quelli in cui non potrebbe essere esplicitato. Questo è ciò che sento quando penso alle traduzioni, alla poesia, alla letteratura in sé.

So che sei appassionato di letteratura coreana e inglese sin da piccolo. Ci puoi suggerire qualcosa?

Ogni volta qualcuno mi chiede di consigliare un libro di letteratura coreana, la mia scelta va a The girl who wrote loliness di Kyung-Sook Shin perché si tratta del romanzo più importante scritto dopo la guerra di Corea. Se questo non rientra nelle corde dei lettori allora penso che potrebbero apprezzare Love in the big city di Sang-young Park visto che tratta di temi urbani legati al romanticismo e alla solitudine. Ci sono moltissime traduzioni del primo e altrettante ne stanno uscendo per il secondo. Per la letteratura inglese Byatt è la mia autrice preferita e Possession è un buon libro per iniziare ad entrare nella sua poetica. Il mio racconto preferito in assoluto è Racine and the tablecloth. Parla di un traduttore.

Negli ultimi anni la letteratura coreana è diventata conosciuta anche al di fuori della Corea. Qual è la tua opinione circa le ragioni che hanno portato a questo successo?

Posso dire il capitalismo? Ciò che stiamo vedendo è solo la punta dell’iceberg dell’enorme quantità di denaro che è stata investita nello sviluppo di musica, film, e produzione culturale in generale in Corea. sicuramente abbiamo una tradizione nel rispettare le arti, soprattutto quelle letterarie, ma quale cultura non la ha? Trovo molto ironico che alcuni dei nostri lavori più di successo, commercialmente parlando, siano una critica al capitalismo e allo stesso tempo servono a perpetrarlo, come Parasite o Squid Game. Questi lavori provano che il capitalismo, criticato al loro interno, è saldo, qualunque critica verso di esso serve a rafforzarlo. È una delle tematiche discusse attualmente in Corea, e a cui spero interverranno persone da tutto il mondo.

 Su cosa stai lavorando al momento?

Sono nel mezzo di una totale frenesia con una serie di prove per vari libri. Queste prove sono poi inviate a case editrici anglofone, da me o dagli agenti letterari se gli autori ne hanno uno – generalmente da me – per dare il via alla parte preliminare del lungo processo di acquisizione; quindi, avrò molte cose da tradurre più avanti. Vorrei poter essere più specifico ma è sempre molto vago cosa posso rivelare in pubblico e cosa no; pertanto, tendo ad essere cauto a riguardo. Penso però di poter dire che ho appena finito di tradurre un libro sulla distimia, che è una forma a basso grado ma persistente di depressione, una condizione che secondo me molte persone hanno senza esserne consapevoli. L’autrice, Baek Se-Hee, ha scritto questo libro con la speranza di poter aiutare coloro che provano le sue stesse sensazioni, e mi sono commosso per il suo coraggio, onestà e generosità. E la sua scrittura è altrettanto piacevole. Il libro si intitola I want to die but I also want to eat tteokpokki. Bloomsbury UK e USA lo pubblicheranno il prossimo anno.    


All images courtesy of Anton Hur

Introduzione di Elisabetta Cesaroni

Iscriviti alla newsletter