Il Movimento del Primo Marzo

Oggi, primo marzo, si festeggia il 3.1절, festa nazionale in onore del Movimento del Primo Marzo 3.1 운동, una coraggiosa mobilitazione su scala nazionale del popolo coreano che in massa scese in strada per rivendicare il suo diritto all’autodeterminazione e all’indipendenza dall’invasore giapponese. Quella che segue è la storia di questo evento.

Il 22 gennaio 1919 morì l’ultimo sovrano della dinastia Chosŏn (조선), che fu altresì il primo imperatore del Grande Impero di Corea (대한제국). Siamo nel pieno dell’occupazione giapponese della penisola coreana, la cui colonizzazione aveva avuto ufficialmente inizio nel 1910 con la deposizione dell’ultimo imperatore coreano, Sunjong, e che terminò con la capitolazione del Giappone imperiale nel 1945.

Una foto di re Kojong nel giardino del palazzo Changdŏk, fonte: The Korea Herald

La morte di Kojong scosse profondamente il popolo coreano. Iniziò a circolare la voce che fosse stato avvelenato dai giapponesi, cosa che esacerbò ulteriormente l’animo dei suoi ex sudditi. La data dei funerali reali fu fissata al tre marzo, inevitabilmente un gran numero di cittadini provenienti da ogni dove si sarebbero riversati per le strade della capitale. La resistenza contro i giapponesi si mobilitò subito per sfruttare la situazione: da Tokyo a Shanghai, gli esuli coreani abbozzarono risoluzioni di indipendenza, riesaminate poi dagli attivisti politici che a Seul vivevano in clandestinità. Venne così stilata una dichiarazione di indipendenza firmata da 33 esponenti della resistenza politica, ma la loro voce rappresentava quella del popolo tutto che invocava la libertà ed il diritto all’autodeterminazione. Fu così che si giunse al 1° marzo e a quello che è uno degli eventi più importanti nella storia della resistenza coreana contro l’invasore: la lettura della Dichiarazione d’Indipendenza della Corea (una dichiarazione ovviamente unilaterale) nel centralissimo Parco della Pagoda presso il viale Chongno, dinanzi ad un fiume di gente che si era riversato lì proprio per presenziare all’evento. Dal parco, la folla si riversò poi per le strade della capitale, aumentando sempre più, e muovendosi al grido di “Viva l’indipendenza!” (독립 만세!). Dalla capitale, quest’urlo di libertà si accese con dimostrazioni in ogni dove nel resto del Paese e persino all’estero, pieno dell’orgoglio di un popolo che vanta una storia antichissima e che mai avrebbe potuto accettare non solo che la sua terra fosse occupata e sfruttata dai giapponesi, ma che questi cercassero anche di annientare l’identità coreana.

La dichiarazione di indipendenza firmata dai 33 rappresentanti del popolo coreano, fonte: Encyclopedia of Korean Culture

La strategia dei giapponesi fu, sin dall’inizio, quella dell’“assimilazione”. Al fine di giustificare la loro presenza sulla penisola coreana, agli storici fu chiesto di dimostrare a tutti i costi le affinità tra i due popoli. Trasformare i coreani in ubbidienti sudditi dell’imperatore del Sol Levante, questo era quello a cui gli invasori puntavano e per fare ciò arrivarono persino a bandire l’uso della lingua coreana nelle scuole nel 1938, e ad imporre l’uso di nomi giapponesi. Ma i coreani non avrebbero mai potuto dimenticare la loro identità, una identità radicata in secoli di storia. Le dimostrazioni del 1° marzo sono oggi ricordate con il nome di 3.1 운동 letteralmente: “movimento del primo marzo”.

Prenderne parte fu un atto di grande coraggio da parte dei coreani, questi sapevano bene a cosa sarebbero potuti andare incontro. La risposta dell’esercito giapponese fu di una ferocia enorme: diverse centinaia di manifestanti vennero uccisi a colpi di arma da fuoco o katana, alcuni vennero rinchiusi in case, scuole, chiese e dati alle fiamme. In almeno 7500 persero la vita, 15.000 furono i feriti e circa 50.000 gli imprigionati, molti dei quali morirono successivamente in carcere per stenti e torture [Riotto (2018): p. 363]. Tra quest’ultimi ricordiamo Yang Han-muk (1862-1919), tra gli ispiratori della dichiarazione di indipendenza, la studentessa appena sedicenne Yu Kwan-sun (1904-1920), rea di aver fatto attività di volantinaggio per sensibilizzare alla partecipazione nelle proteste, ed il suo coetaneo studente Yun T’aek-chin (1904-1920), la cui (assurda) “colpa” era stata quella di aver fabbricato e distribuito bandiere coreane.

Foto dell’arresto di Yu Kwan-sun, fonte: Encyclopedia of Korean Culture

Nonostante la feroce repressione, la resistenza non si fermò, tutt’altro. Diretta conseguenza del movimento del primo marzo fu la formazione del Governo Provvisorio della Repubblica di Corea (대한민국 임시 정부) l’11 aprile a Shanghai. Lo spirito dei patrioti dimostrava di essere più indomito che mai, i coreani non si sarebbero lasciati sottomettere e continuavano a rivendicare il loro diritto all’autodeterminazione. Fu emanata una costituzione provvisoria per quella che doveva essere la nuova Corea liberata: una repubblica! Dalla sua istituzione, il Governo Provvisorio della Repubblica di Corea diventò il centro di coordinamento della resistenza coreana e dei tantissimi nuclei che si erano formati sia in patria che all’estero, che in esso trovarono un punto di riferimento ed unione. Ma la resistenza non fu portata avanti soltanto con azioni di guerriglia, anche letterati e studiosi contribuirono nel difendere l’identità coreana dall’ingerenza giapponese. Pensiamo all’amato poeta Yun Dong-ju (1917-1945), che perì in una prigione giapponese, e le cui poesie sono oggi ricordate come la voce della resilienza coreana; o al linguista Ju Si-gyeong (1876 – 1914) che diede il via ad una impresa enorme: la creazione del primo grande dizionario della lingua coreana e delle sue varianti dialettali, progetto per il quale i 108 membri della “Associazione per lo studio della lingua di Chosŏn” (조선어학회) misero a rischio la loro vita ed alcuni di loro, purtroppo, la persero per mano degli invasori (per maggiori informazioni su questa vicenda e su un film che la racconta, “Mal-mo-e: The Secret Mission”, della regista Eom Yu-na, vi consigliamo questa lettura).

Quella della resistenza coreana, come quella di tutti i popoli che hanno sofferto una invasione straniera e si sono con passione battuti per la loro patria, la loro cultura, la loro identità, è una storia incredibile e commovente che mai i coreani smetteranno di raccontare. Una volta ottenuta l’indipendenza, il 1° marzo è stato subito dichiarato festa nazionale. Le commemorazioni si tengono ogni anno presso il Parco della Pagoda, dove si ripete la lettura della Dichiarazione di Indipendenza.

Monumento dedicato al Movimento del Primo Marzo presso il Parco della Pagoda, fonte: Encyclopedia of Korean Culture

Vi lasciamo con questo video del rapper BewhY dal titolo “La mia terra” (나의 땅), una elegia all’indomito popolo coreano che si è battuto senza paura per l’indipendenza prima (numerose sono le immagini dei moti del primo marzo), e per la democrazia (nel video vediamo le rivolte popolari del 1960 contro il governo di Syngman Rhee (che fu primo presidente della Corea del Sud, eletto nel 1948, ed altresì primo presidente del Governo Provvisorio della Repubblica di Corea), poi quelle degli anni ’80 contro la dittatura militare che invocavano la democrazia). Troviamo riferimenti anche alla “Rivoluzione delle candele” (così vennero chiamate in Italia le manifestazioni pacifiche a lume di candela, in coreano chiamate 촛불집회, che si susseguirono ogni fine settimana nel centro di Seul, tra il 2016 ed il 2017, per chiedere la deposizione del primo ministro Park Geun-hye, coinvolta in uno scandalo) ed alle Comfort Women (donne costrette alla prostituzione per mano dei soldati giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale), quest’ultima questione ancora fortemente dibattuta a livello internazionale.

FONTI:

Lowe, P. (1986). The Origins of the Korean War (2nd ed.). London, Routledge.

Riotto, M. (2005). Storia della Corea. Dalle origini ai giorni nostri. Milano, Bompiani.

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