Squid Game: lost in translation

Sui legami relazionali che si sono persi nei sottotitoli in italiano

Il “Gioco del calamaro” è oggi sulla bocca di tutti, punta dell’iceberg di quel fenomeno mondiale che è l’Hallyu, l’onda coreana che con i suoi film, telefilm, musica, cibo ecc. sta travolgendo il mondo. Dopo Parasite e la musica pop di BTS e Black Pink, Squid Game è l’ennesimo prodotto culturale che sta avvicinando, un passo in più alla volta, la Corea del Sud al resto del mondo. Ormai non c’è dubbio, la Corea va di moda, una moda esplosa in Asia Orientale nei primi anni 2000, grazie a telefilm come Winter Sonata che hanno fatto sognare e commuovere intere generazioni fino ad oggi, e dove la passione per il made in Corea ancora non si spegne. Questa passione si è poi accesa anche nel continente americano grazie al K-pop, ed infine è giunta in Europa in parte grazie al grande investimento di Netflix in prodotti coreani durante la pandemia, ed in parte grazie al successo sempre più dilagante dei BTS ed altri idol sud-coreani tra i giovani.

In molti hanno parlato di Squid Game sotto le più diverse sfumature, molto interessante è il post dell’Istituto Culturale Coreano che rivela tutti i giochi e gli elementi utilizzati nel telefilm legati ai ricordi dell’infanzia degli spettatori sud-coreani, e quindi carichi di un certo senso di malinconia che a noi italiani potrebbe sfuggire.

Fonte: yna.co.kr 

In molti hanno anche parlato della questione della traduzione, di quanto sia andato perduto nel passaggio da coreano ad inglese. Poco o niente ho letto per quanto concerne la traduzione dal coreano all’italiano. In realtà io non sono ancora così brava da poter fare a meno dei sottotitoli, quando sono disponibili di solito uso i sottotitoli in coreano ma in questo caso non c’erano. Questo però mi ha permesso di notare la discrepanza tra la versione italiana e quella coreana nei rapporti relazionali, un elemento che vorrei qui approfondire perché rivela molto della cultura della Corea del Sud.

Fonte: 8days.sg 

Partiamo con il personaggio di Han Mi Nyeo, giocatrice n. 212 che ha un flirt con Jang Deok Su, giocatore n. 101, il suo “oppa” (오빠). In realtà lei chiama anche altri giocatori di sesso maschile “oppa”, termine che se ben ricordi viene tradotto come “tesoro”. Nel poco spazio che un traduttore ha a disposizione per i sottotitoli “tesoro” è probabilmente la soluzione più adatta, ma cosa vuol dire davvero questo “oppa”? Ebbe in Corea è cosa comune chiamare il prossimo con termini che indicano i membri della famiglia. In questo caso “oppa” vuol dire fratello maggiore, e lo usano le donne per chiamare i loro fratelli maggiori, che siano essi di sangue o semplicemente dei ragazzi più grandi di loro. Attenzione però, il termine è oggi molto in voga tra fidanzati, è infatti “oppa” il modo in cui le ragazze spesso chiamano il loro compagno, motivo per cui la traduzione di “tesoro” nel modo in cui Han Mi Nyeo usa “oppa” può ritenersi corretta, perché ha proprio quella malizia un po’ civettuola di chi si rivolge ad una persona per la quale prova interesse o vorrebbe fare colpo.

Come dicevo, “oppa” è utilizzato dalle donne per chiamare i propri “fratelli maggiori”, ma lo stesso termine non può essere utilizzato dagli uomini per far riferimento ai propri fratelli maggiori. In tal caso si userà un’altra parola che nel telefilm ha una forte importanza nel contribuire a costruire uno stretto rapporto di amicizia tra due personaggi, ma che nella traduzione si perde: “hyŏng” (형). Il giocatore 199, Ali Abdul, è un immigrato pachistano che chiama tutti “sajangnim” (사장님), termine che potremmo tradurre come “capo”. Ali lavora in fabbrica in condizioni pietose e raramente riesce a vedere il salario che gli spetta, il suo personaggio è probabilmente il più innocente tra tutti i giocatori in gara. Elemento alieno in una realtà dove persiste il retaggio della mentalità confuciana per cui il rispetto verso gli anziani e l’importanza data alla posizione sociale sono tutt’oggi sentiti in maniera forte e caratterizzano il modo in cui i coreani si relazionano tra di loro, Ali tende a mostrare un rispetto quasi esagerato verso i suoi interlocutori, forse esasperato tentativo di essere accettato dai coreani. Ali è il simbolo di tutti quegli umani che, costretti dalla povertà e dalla disperazione, sono pronti ad affrontare qualsiasi difficoltà e ad accettare i peggiori dei soprusi pur di guadagnarsi da vivere. Ali è così cristallizzato nel suo status di immigrato ed operaio che la sua forza fisica sembra espressione della sua forza lavoro, per cui chiama tutti “capo” come se in questo modo egli stesso ribadisse con umiltà la sua posizione di inferiorità. Ma nel gioco, dove tutti sono uguali e sullo stesso livello, questa inferiorità si rivela nella sua totale insensatezza: un costrutto sociale che deumanizza in una società dove il valore di un essere umano sembra determinato dal lavoro che svolge.

Il desiderio di Ali di essere riconosciuto in quanto umano, e non come mera forza lavoro da sfruttare fino al midollo, trova realizzazione nel momento in cui Cho Sang Woo, giocatore n. 218, gli chiede di chiamarlo “hyŏng”, fratello maggiore. È un momento molto toccante perché evidenzia il legame affettivo che si è instaurato tra i due, Ali anche se straniero conosce bene il significato di “hyŏng” e di come questo rappresenti il suo riconoscimento come essere umano da parte di un membro di quella società che fino a quel momento lo aveva identificato solo come oggetto da sfruttare. Ali Abdul e Cho Sang Woo stanno parlando delle loro vite, Cho Sang Woo chiede ad Ali della sua età e della sua famiglia. Conoscere l’età del proprio interlocutore è un elemento importante per stabilire il registro linguistico da utilizzare. Una persona più anziana, secondo la mentalità confuciana, merita maggiore rispetto e quindi ci si rivolgerà utilizzando un registro linguistico capace di mostrare questo rispetto, qualcosa di simile al “lei” italiano ma strutturalmente più complesso. Ali è più piccolo di Sang Woo e quindi quest’ultimo gli dice di chiamarlo “fratello maggiore”, cioè “hyŏng”. È una richiesta che rende Ali estremamente felice, ma che si perde nella traduzione italiana dove non v’era spazio per spiegare questo concetto, così che il traduttore trasforma questo “chiamami hyŏng” con “chiamami Sang Woo”, che corrisponderebbe alla richiesta, nella nostra lingua, di dare del tu. Sicuramente è una scelta che nel poco tempo disponibile ad un sottotitolo meglio rende il senso di ciò che sta accadendo, eppure non è abbastanza per far sì che chi non conosce la cultura coreana possa comprendere la gioia nello sguardo di Ali nel sentire la parola “hyŏng”.

In Corea il senso di collettività è molto forte e si esprime nel concetto di “jŏng” (정/情), un’idea difficilmente spiegabile ad un occidentale. Spesso ho letto questa parola tradotta come “affetto” o “legame affettivo”, e sebbene proprio quest’ultima si possa dire la definizione adatta, “jŏng” vuol dire questo e molto di più. Per quella che è stata la mia esperienza in Corea e con persone coreane, jŏng per me è un sentimento di umana pietà e compassione, una forma di empatia verso il prossimo che ci spinge ad aiutare chi ne ha bisogno, ed a sentirci in debito verso chi ci ha fatto del bene. Ricambiare un favore è qualcosa di essenziale nella cultura coreana. Direi, inoltre, che jŏng è senso del dovere verso la collettività, ma anche piacere nella condivisione, piacere che si esplica in maniera palese sulla tavola coreana dove portate singole praticamente non esistono (se non per la ciotola di riso e la porzione di zuppa), ma tutto sta al centro e va condiviso tra i commensali. D’altra parte l’hanja, cioè l’ideogramma cinese di jŏng è 情, si trova sulle confezioni di choco-pie, i tortini al cioccolato fatti proprio per essere condivisi. Il senso di collettività è così forte in Corea che nella sua lingua si esprime anche nell’uso dei pronomi possessivi: i coreani non dicono mai “casa mia” ma usano “casa nostra” e con questo “nostro” non intendono la famiglia, ma in qualche modo includono anche le persone con cui stanno parlando, e lo stesso accade quando parlano di figli, amici o parenti. Strano vero? La prima volta che sono andata in Corea proprio non lo capivo, ma una volta che apprendi questo concetto inizi a renderti conto di quanto individualista sia la nostra società.

Commuovente, no? Eppure in Squid Game si ammazzano senza pietà. Ma la critica al capitalismo sta proprio in ciò, ed è più amara di quanto appaia allo spettatore occidentale: l’idea di jŏng si sta perdendo persino tra le classi sociali più basse, dove in epoca pre-moderna rappresentava proprio la forza di chi apparteneva al mondo agricolo, che con fatica sopportava i soprusi dell’aristocrazia degli yangban ma che nella collettività trovava la forza di andare avanti. Nelle comunità agricole coreane, infatti, fin dall’antichità esisteva un sistema di gestione del lavoro chiamato “dure” (두레) che prevedeva la divisione dei compiti tra tutti gli abitanti del villaggio in maniera equa, cosa che comportava anche la responsabilità ed il dovere di aiutare i compagni in difficoltà. Di questo sistema ne ritroviamo ancor oggi delle testimonianze in attività come il kimjang (김장), la preparazione collettiva del kimchi.

L’industrializzazione e la crescita economica, che a partire dagli anni ’70, con una velocità esorbitante, ha portato la Corea a diventare la 12esima potenza economica mondiale, ha avuto come inevitabile conseguenza anche questa perdita del senso di comunità verso un individualismo ed una lotta di classe sempre più esasperata, come altri prodotti culturali oltre Squid Game, tra cui il pluripremiato “Parasite” di Bong Joon Ho, o anche un meno famoso “Pietà” di Kim Ki Duk (in realtà sono tanti i film di Kim su questo tema, ma Pietà ve lo consigliamo con particolare convinzione) continuano con ostinazione a denunciare.

In Corea un mio amico mi chiama sempre “nuna” (누나), vuol dire “sorella maggiore” in quanto sono un po’ più grande di lui. Una ragazzina adolescente coreana ha vissuto a casa con la mia famiglia per alcuni mesi ed all’improvviso io e tutte le mie amiche eravamo le sue “sorellone”, in coreano “ŏnni” (언니). Forse suona un po’ strano a noi occidentali, però questo senso di comunione con la società è qualcosa che ho apprezzato molto, mi ha fatto sentire spesso a casa anche se da casa ero tanto lontana, e mi auguro vivamente che non scompaia sopraffatta da un consumismo sempre più folle e accecante.


Articolo di Sara Bochicchio

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