Perché odio la Corea

“Perché odio la Corea” e la ricerca della felicità

Quando ci si avventura nella lettura di un libro o nella visione di un film può capitare di provare una strana felicità per essersi imbattuti nel personaggio protagonista della storia. Proprio come se si trattasse dell’incontro con una persona vera e non con il frutto della fantasia di un autore. È una sensazione piacevole e straniante allo stesso tempo che regala un sapore diverso a ciò che si sta leggendo o guardando, ed è esattamente quello che mi è successo leggendo “Perché odio la Corea” il libro di Chang Kang-myoung edito da Atmosphere Libri.

Kyena, con i suoi trent’anni ancora da compiere, è vera e reale, non si muove solo tra le pagine di un libro, cammina a fianco a noi con i suoi dubbi e la sua voglia di vivere una vita giusta per lei.
Ci vuole coraggio e anche un po’ di incoscienza per decidere di lasciare il proprio paese perché lì ci si sente sbagliati e non adatti. Kyena fa questa scelta quando si rende conto di non essere tagliata per la Corea perché raggiunge “la piena consapevolezza che io, a quei paralleli, non valevo una cippa” e “la odiavo. O meglio, non sopportavo più quel tipo di vita”.

Sono dichiarazioni forti, che Kyena ci fa appena ci incontra, subito dopo averci annunciato di aver lasciato il suo ragazzo e la sua famiglia e di essere in partenza per l’Australia, la terra che ha scelto per mettersi in salvo e trovare la propria strada.

Al di là delle specificità della società coreana, con le sue gerarchie e regole, le sue divisioni di classe e i suoi ritmi di lavoro totalizzanti, i sentimenti che muovono Kyena sono facilmente comprensibili anche da questa parte del mondo. Riusciamo perfettamente a comprendere la sua necessità di andarsene, di respirare un’aria diversa, di seguire altre regole, né migliori né peggiori, semplicemente più adatte a lei.

La vita in Australia, infatti, non sarà più facile o priva di ostacoli: sarà e si sentirà una straniera, dovrà imparare una nuova lingua, sarà costretta ad accettare lavoretti e condividere appartamenti, e arriverà anche a scontrarsi con la giustizia australiana. Tutto ciò però non le impedirà di continuare a scegliere l’Australia.

A chi mi chiedeva perché non amassi la mia patria avrei potuto rispondere che era piuttosto la mia patria a non amare me, o meglio, a non provare alcun interesse nei miei confronti. Sì, mi dava da mangiare, di che vestirmi e mi ha protetta, ma anch’io, dal mio canto, ho rispettato le sue regole, ho dovuto studiare e ho pagato le tasse. Ho fatto tutto quello che mi è stato detto di fare. La mia patria amava solo e soltanto se stessa e apprezzava solo gli elementi della sua società che erano in grado di darle lustro”.

Con questa lapidaria affermazione, che giunge verso la fine del libro, Chang Kang-myoung riesce a riassumere tutta l’insoddisfazione, la sfiducia e il senso di distacco che Kyena prova verso la sua madrepatria (e con lei tanti altri ragazzi e ragazze della sua generazione, visto il successo che il libro ha avuto in Corea alla sua uscita, nel 2015).

È per questo miscuglio di sentimenti che Kyena decide di andarsene ed è per questo che decide di non accontentarsi e di andare alla ricerca della sua felicità. Una felicità che per lei non è univoca, ma si declina in due varianti: una felicità “in contanti”, che si ottiene momento per momento, e una felicità “capitalizzata”, che invece arriva dopo che si è raggiunto un traguardo e lo si ricorda a distanza di tempo.

Per Kyena entrambe queste felicità sono fondamentali e di entrambe non può fare a meno perché si rende conto di non poter vivere “con i livelli medi di felicità in contanti che bastavano agli altri in Corea”. Per questo deve arrivare per lei il momento in cui fare sul serio ed essere davvero felice nella nazione che per volontà e scelta ha eletto a sua nuova patria.

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