cinema sudcoreano

Tre film, una linea di confine

“Periferia Nord-Est di Kaesong, Repubblica di Corea, ore 04.00 di domenica 25 giugno 1950. L’unico consigliere americano presente nella notte tra il 24 e il 25 giugno 1950 nei pressi del 38° parallelo, il capitano Joseph R. Darrigo, aggregato al 12° reggimento della 1ª divisione sudcoreana, venne svegliato improvvisamente dal rumore di un tuono lontano”.

Così Gastone Breccia, nel suo “Corea, la guerra dimenticata” descrive l’inizio del conflitto che tre anni dopo sancirà la divisione in due della penisola coreana. Una divisione arbitraria che corre lungo il 38° parallelo, frutto di un accordo tra Stati Uniti e URSS ritenuto necessario per spartire le sfere di influenza nel momento del crollo dell’impero nipponico: il Sud a controllo americano e il Nord a controllo sovietico.

Come sappiamo la separazione è divenuta permanente (almeno finora) e le sue conseguenze sono visibili ancora oggi. È pertanto inevitabile che la divisione, e dunque la contrapposizione ideologica tra Nord comunista e Sud capitalista, siano divenute uno dei temi più trattati dalle cinematografie di entrambe le Coree.

In particolare, in Corea del Sud dalla fine degli anni ‘50, durante gli anni dei regimi militari, vennero prodotti molti “drammi anticomunisti” di chiaro stampo propagandistico. Furono anni, infatti, in cui la pesante censura colpiva qualunque film volesse rappresentare i conflitti politici ed economici della società coreana o criticare il regime e le strutture sociali esistenti.

Il sentimento anticomunista nell’opinione pubblica coreana inizia a scemare in anni più recenti come dimostra il successo ottenuto da “Southtern Guerrilla Forces”, film di Jeong Ji-Young uscito nel 1990. La pellicola, ambientata negli anni ‘50 e basata sulla storia vera di Lee Tae, corrispondente di guerra che si unsce ai partigiani nordcoreani, racconta la loro lotta contro il governo sudcoreano. A differenza di quanto ci si possa aspettare, nel film i combattenti comunisti non vengono disumanizzati o descritti in maniera negativa, ma sono anche loro considerati vittime dei conflitti ideologici che dividono la penisola. Un cambio di punto di vista che all’uscita del film scatenò un forte dibattito sulle opposte ideologie e che mostrava un importante mutamento nella sensibilità della popolazione sudcoreana.

Da allora molti altri film e registi si sono allontanati da una facile e manichea divisione tra sudcoreani-anticomunisti-buoni e nordcoreani-comunisti-cattivi per abbracciare una maggiore complessità. I tre di cui parlerò di seguito sono usciti negli anni 2000 e affrontano la questione in modi e con stili e punti di vista completamente diversi.

JSA – Joint Security Area, Park Chan-wook (2000)

Nella zona demilitarizzata al confine tra le due Coree, Sophie E. Jean, maggiore di origini svizzero-coreane della Commissione di Supervisione delle Nazioni Neutrali, è chiamata ad indagare su una sparatoria che vede coinvolti soldati sudcoreani e nordcoreani. Il suo compito è capire perché il soldato sudcoreano Lee abbia aperto il fuoco uccidendo due soldati nordcoreani e ferendone un terzo. L’indagine rivelerà una verità insospettabile: la nascita di un’amicizia tra uomini che la storia ha portato ad essere nemici.

Di fatto, dietro le vesti di un thriller, Park Chan-wook dipana un racconto che parla di un popolo troppo a lungo diviso e della ricerca di una fratellanza perduta. Per farlo Park porta il soldato Lee ad attraversare il ponte che separa le postazioni di guardia dei soldati del Nord da quelli del Sud.

Quando Lee decide di mettere piede in territorio “nemico” compie un gesto di ricongiunzione metaforico, prima ancora che fisico (e forse non è un caso che l’atto dell’attraversamento non venga mostrato), un gesto che il suo omologo nordcoreano considera come “una breccia nella nostra tragica storia” che ha “rotto il muro per riunificare il paese”. L’amicizia che nasce e si sviluppa diventa un’amicizia tra coreani senza distinzioni cardinali, attraverso la quale il regista invita a superare le barriere politiche, ideologiche e storiche per riuscire a vedere “l’altro come sé”.

Il prigioniero coreano, Kim Ki-duk (2016)

Il film di Kim Ki-duk va dritto al cuore delle questioni ideologiche alla base dei due governi coreani. La storia è quella di Nam Chul-woo, pescatore nordcoreano che a causa di un problema al motore della sua barca finisce suo malgrado in territorio sudcoreano. Sospettato di essere una spia viene rinchiuso in una struttura per essere interrogato. Il trattamento riservatogli dagli uomini delle forze di sicurezza è duro e non privo di violenze e a nulla valgono le sue dichiarazioni di innocenza e il suo desiderio di tornare a casa da sua moglie e da sua figlia.

Il sistema è strutturato per considerarlo un infiltrato del regime comunista e per condurlo ad una confessione. L’unico a guardare Nam senza il filtro del pregiudizio ideologico è il membro più giovane della squadra. Il ragazzo, il cui nonno è di origine nordcoreana, comprende fin da subito che Nam è chi dice di essere e mostra compassione e rispetto per un uomo che la pensa e vive in modo diverso da lui.

Quando anche i funzionari della sicurezza comprendono che non si tratta di una spia, la soluzione prospettata non è quella del suo rilascio in modo che possa tornare al Nord, ma tentano di convincerlo a disertare. Ricevuto un secco rifiuto, ben sapendo che l’uomo non vuole vedere nulla della Corea del Sud (meno vede, meno dovrà dichiarare ai funzionari del Nord quando potrà tornare), decidono di lasciarlo “libero” tra le strade di Seoul convinti che le “sirene del capitalismo” riusciranno a convincerlo a restare. Ma Nam non cede e, dato che la sua presenza al Sud sta creando tensioni tra i due Paesi, ottiene di poter tornare a casa.

La visione del regista però non lascia spazio alla speranza, al suo ritorno al Nord Nam riceverà lo stesso trattamento che gli era stato riservato al Sud e vivrà una situazione speculare, solo di segno opposto. Il messaggio che traspare dal film è che per Kim Ki-duk, in fondo, i sistemi che governano i due Paesi si assomigliano in quanto entrambi tolgono umanità a chi li perpetra e mirano a mantenere uno status quo necessario a legittimare le rispettive esistenze, a discapito, naturalmente, delle persone comuni che vorrebbero la riunificazione.

Fighter, Jero Yun (2020)

Rispetto ai film precedenti “Fighter” ha un carattere più intimo e raccolto, ma anche in questo caso si sente la ferita lasciata da un Paese diviso. Protagonista è Rhee Ji-na, una giovane rifugiata nordcoreana che cerca di rifarsi una vita a Seoul dopo aver abbandonato il proprio Paese. 
Ji-na è al tempo stesso figlia di un Paese diviso e di una famiglia divisa: la madre è fuggita in Corea del Sud anni prima dove si è rifatta una famiglia, mentre il padre attende di poter raggiungere la figlia. In qualche modo Ji-na incarna la situazione che tutti i coreani portano su di sé poiché tutti, indipendentemente dalle situazioni personali, vivono in un Paese che ha perso l’unità che aveva conosciuto per centinaia di anni.

Ciò che però interessa maggiormente il regista è mostrare la forza combattiva e la tenacia della protagonista nel vivere la sua vita, adattandosi ad una società diversa da quella di provenienza e che tende a discriminare e ad avere pregiudizi nei confronti dei cittadini nordcoreani. Siccome l’obiettivo principale di Ji-na è guadagnare abbastanza da riuscire a portare al Sud anche suo padre, non si esime dal fare due lavori: la cameriera in un ristorante e la donna delle pulizie in una palestra di boxe. Ed è qui, mentre osserva altre donne che si allenano, che inizia a provare interesse per lo sport fino ad accettare di farsi allenare e iniziare a combattere.

Grazie alla boxe Ji-na riesce a trovare chi crede in lei e nelle sue capacità andando al di là della sua provenienza, ricrea una specie di nuova famiglia e, allo stesso tempo, ottiene la sua personale forma di riscatto. Yero Jun, che si era già occupato in precedenza di rifugiati nordcoreani, è completamente al fianco di Ji-na, aderisce al suo punto di vista e, attraverso di lei, porta in scena le storie e le condizioni di vita dei tanti rifugiati che vivono in Corea del Sud.

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Fonti:

Gastone Breccia, “Corea, la guerra dimenticata”, Società Editrice Il Mulino, 2019.

Marco Della Gatta, Dario Tomasi, “Il cinema dell’Estremo Oriente”, UTET Università, 2010.

Hyangjin Lee, “Cinema coreano contemporaneo. Identità, cultura e politica”, O barra O  edizioni, 2006.

Nel testo dedicato al film di Park Chan-wook, “l’altro come sé” presente in chiusura riprende l’efficace titolo del capitolo dedicato al film in “Il cinema dell’Estremo Oriente”: “Il doppio e l’altro come sé: Joint Security Area”.

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