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Riflessioni su “Notti invisibili, giorni sconosciuti” di Bae Suah

Ho appena finito di leggere “Notti invisibili, giorni sconosciuti” di Bae Suah. Mi sento confusa ma estasiata, come al risveglio da un sogno, un sogno nel quale tutto aveva perfettamente senso, un senso che si frammenta e disintegra al mio risveglio. Restano solo immagini, immagini sublimi: sono tecnicamente godibili in ogni minimo dettaglio, rendendo “bella” persino la descrizione di un oggetto fetido. Chissà quanto di questo effetto sia originale o derivi dalla traduzione in una lingua romanza? È sicuramente questo un romanzo che abbaglia e colpisce per le sue descrizioni e la loro circolarità. Tutto torna, tutto è connesso. 

Sono in una libreria e leggo “Helgoland” sulla copertina di un piccolo libro in bella mostra su una cima di sue copie, circondato dalle “proposte del momento”. Mi stupisce e, al contempo, esalta il fatto che un saggio divulgativo sulla fisica quantistica rientri in queste proposte: forse c’è ancora speranza nell’umanità in quest’epoca rovinosa. Mi chiedo se Bae Suah conosca la fisica dei quanti. Compro il libro rapita dall’illusione che ci sia un legame tra questo e le misteriose atmosfere di un lontano paese asiatico. Essi, per me, sono connessi in uno stato entangled come i due fotoni che (nell’esperimento mostrato in Helgoland), nonostante si trovino a due capi del mondo (Vienna e Pechino), restano correlati. Ma la correlazione è tutta soltanto nei miei occhi di osservatrice, sono io che li connetto e in questa connessione prendo parte, la rendo possibile. E allora i personaggi-doppi del romanzo, connessi da informazioni-descrizioni uguali, sono reali come gli oggetti del mondo che, secondo la teoria dei quanti, esistono solo nel loro essere in relazione tra loro. “Gli oggetti sono descritti da variabili che prendono valore quando interagiscono e questo valore è determinato in relazione agli oggetti in interazione, non ad altri. Un oggetto è uno, nessuno, centomila” spiega Carlo Rovelli, autore di Helgoland. Ed ancora: “Il mondo è un gioco prospettico, come gli specchi che esistono solo nel riflesso di uno nell’altro”. Lo stesso gioco di specchi si ripete nelle atmosfere oniriche del mondo di Bae Suah: ogni personaggio è connesso all’altro e ne riflette qualcosa, tutti questi a loro volta riflettono l’autrice che li ha creati ed entrando in contatto con il lettore, interagiscono con questo prendendo nuova vita; ogni luogo è interconnesso ad un altro e ne riflette qualcosa, il dettaglio di un quadro prende vita nella realtà, il motivo di un’opera d’arte fa muovere la realtà, mentre il tempo si dilata e poi accartoccia su se stesso; presente, passato e futuro non hanno più significato, se un significato v’è mai stato. 

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In Asia, circa 1800 anni fa, un monaco buddhista indiano di nome Nāgārjuna aveva compreso quello che oggi la fisica dei quanti sembra aver rivelato al mondo della realtà ultima delle cose: la sua vacuità. Le cose sono vuote, non esistono in sé, indipendentemente dall’altro. L’esistenza è relazione, e come in un sogno i personaggi di “Notti invisibili, giorni sconosciuti” mi prendono per mano, insieme al traduttore che ha reso questa storia nella mia lingua madre, portandomi nel mondo di una scrittrice che vive dall’altra parte del globo, e ciò che sembra non aver significato ne acquisisce di nuovo in questo effimero legame. “Ogni cosa è solo ciò che si rispecchia in altre” scrive Carlo Rovelli, “[O]gni visione è parziale. Non esiste un modo di vedere la realtà che non dipenda da una prospettiva”. Significati si aggiungono a significati nell’interazione. Nello scrivere la sua opera l’autrice dà forma, in parole, alle immagini della sua mente, a sensazioni, intuizioni, idee scaturite chissà come e chissà dove. Nel tradurre l’opera dal coreano all’italiano il traduttore crea un surplus di significato: senza dubbio aggiungerà qualcosa, anche non volendo, che renderà l’opera in una certa misura italiana, mentre qualcosa andrà perduto della sua essenza originaria. Ed io, lettrice, nell’atto di leggere non faccio altro che interpretare e dare nuova forma alle immagini e parole create da qualcun altro. 

Significati si sovrappongono a nuovi significati, e mentre cerchiamo di scavare a fondo alla ricerca delle origini, Nāgārjuna ci ammonisce dall’intraprendere una ricerca vana, che può portare solo alla vacuità originale. Ed è allora nell’output finale, nell’emozione che si prova a leggere l’ultima frase dell’ultimo capitolo del testo che dobbiamo prestare attenzione: il legame tra noi ed il testo è ormai consolidato, a breve potrebbe anche svanire (quando e se la memoria di questa lettura sarà obliata), ma cosa ci ha lasciato? Cosa resta a me nell’esperienza di essermi specchiata in Ayami, che si specchia in Yoni, che a sua volta si specchia in Bae Suah?

La storia, come ogni storia, volge al suo termine, i personaggi si accomiatano svanendo lentamente, vacui come “spiriti sciolti nell’aria”, effimeri come “lacrime nella pioggia”. Diceva Shakespeare, per bocca di Prospero: “Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e la nostra breve vita è circondata dal sonno”. Nel leggere il romanzo, do vita ai suoi personaggi con le mie emozioni, e nel vedere i personaggi svanire alla fine della storia, chiudo gli occhi e provo ad immaginare di svanire anche io…

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